Nel breve volgere di un mese il lavoro da remoto si è imposto a livello globale come l’unica
modalità di lavoro possibile in tempi di pandemia. Una vera e propria rivoluzione che ha fatto
crollare le distinzioni tra vita lavorativa e vita privata che avevano segnato il Novecento e che oggi
mette in discussione, con lo spazio e il tempo di lavoro, anche gli stili di vita delle persone e
finanche il nostro modo di concepire la vita familiare. E ora milioni di lavoratori, nel silenzio
legislativo, cominciano a domandarsi con sempre maggiore preoccupazione se, terminata
l’emergenza, avranno diritto di continuare a lavorare da remoto o se dovranno rientrare nelle sedi di
lavoro.
Il problema è che questo fenomeno è ancor oggi regolato dalla legge sullo smart working,
che era stata immaginata con riferimento ad una modalità di svolgimento della prestazione parziale
e straordinaria, oltre che da una congerie di disposizioni emergenziali, contratti collettivi, circolari
ministeriali e disposizioni sanitarie che creano confusione, sovrapposizioni, problemi interpretativi
e che saranno sicuramente foriere di contrasti giurisprudenziali.
Problemi nuovi richiedono invece soluzioni nuove e dopo anni di austerità esistono
finalmente le condizioni culturali, sociali ed economiche per cogliere questa straordinaria
opportunità di modernizzazione, promuovendo un ripensamento complessivo della disciplina del
lavoro da remoto che ne favorisca il radicamento anche oltre l’emergenza.
Di qui l’esigenza, avvertita da un gruppo di accademici coordinati da Michel Martone, di
approfondire, con approccio multidisciplinare, le problematiche emerse nel corso del lockdown,
prefigurando i tratti di una riforma che semplifichi il quadro normativo e disciplini il più
significativo episodio di mobilità lavorativa di massa del terzo millennio.